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“Rivolte arabe”: dove va la Turchia?

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Passano i giorni, ma la posizione assunta da Ankara sulle gravi emergenze libica e siriana (nel primo caso un’aggressione militare “atlantica” al di fuori di ogni norma del diritto internazionale, nel secondo azioni di gruppi armati spacciati dalla propaganda occidentale come “manifestazioni democratiche”) continua indubbiamente a suscitare perplessità e un certo sconcerto nell’opinione pubblica turca.

L’astensione di Russia e Cina al Consiglio di Sicurezza dell’ONU  nei confronti della risoluzione 1973 ha determinato un “vuoto di potere” eurasiatico che ha pesantemente condizionato anche la politica turca.  La mancata opposizione russo-cinese alla guerra di Libia – un conflitto foriero di sconvolgimenti che potranno durare per anni – unita al drammatico e talvolta pilotato riassestamento del mondo arabo hanno provocato un vero tourbillon nell’intera area influenzando la politica di Ankara, per lo meno a breve termine.

Certamente un certo ruolo lo stanno giocando quelle forze interne – vertici militari in testa, ma anche tutta una serie di analisti e intellettuali all’opera per  cercare di radicalizzare il  momento di difficoltà dei rapporti turco- siriani   – che mirano a un ritorno del “figliol prodigo” nella casa occidentale.

Quanto al governo, c’è da sottolineare una certa differenza di approccio tra Capo dell’esecutivo e ministro degli Esteri, soprattutto sulla questione siriana. Se Erdoğan tiene una posizione più dura, arrivando ad accusare di “atrocità” il regime di Damasco, Davutoğlu ha intravisto nell’ultimo intervento del Presidente Assad “elementi positivi, da tradurre in passi concreti”, e parlando con il suo omologo tedesco Westerwelle ha sottolineato che “la Turchia condivide il destino della Siria”.

L’allarme per le migliaia di profughi giunti in territorio turco – emergenza che sembra ora parzialmente rientrare, ma è presto per fare previsioni – si giustifica anche per il timore che fra i tanti rifugiati siano presenti terroristi del PKK, del PEJAK o similari:  ipotesi tutt’altro che peregrina, visto che ad animare la “rivolta siriana”, secondo più fonti, hanno provveduto guerriglieri venuti da fuori, in combutta con elementi interni.

Lo stesso scenario verificatosi nel marzo 2004, allorché nella zona di Qamisli – una piccola area a prevalenza curda al confine con la Turchia – vi furono prima dimostrazioni a favore di Bush, “liberatore” dell’Iraq, poi rivolte e assalti alle sedi del Baath, a partire dall’episodio/pretesto di un incontro di calcio fra squadre locali; disordini scoppiarono anche ad Aleppo e sulle montagne vicine:  fu una “rivolta” ben poco spontanea (al proposito significative le testimonianze raccolte da Lorenzo Trombetta e  a suo tempo pubblicate da “Limes”), bensì pianificata e sostenuta dai servizi israeliani – ben presenti nel nord Iraq – e statunitensi attraverso i leader curdi iracheni Barzani e Talabani.

Tutto ciò dovrebbe essere chiaro ai dirigenti turchi e in particolare Davutoğlu nel richiamare la comunità di destino fra Turchia e Siria mostra di tenerlo presente.

Sul piano generale, comunque,  è la relazione con i Paesi arabi che va precisata e definita dopo i cambiamenti – ancora incerti – in atto nel mondo arabo.

L’AKP sembra in questa fase privilegiare  accordi con movimenti quali i Fratelli Musulmani trascurando invece quelli – fin qui perseguiti – con regimi nazionali e cosiddetti laici (tali appunto quelli libico e siriano); questo percorso potrebbe provvisoriamente coincidere con quello delle potenze occidentali, ansiose di liberarsi – con i bombardamenti “umanitari” e la gestione delle “rivolte arabe” – di Paesi scomodi per la loro rivendicazione di sovranità. Ma questa dicotomia tra regimi laici e regimi a sfondo religioso, che da un lato dimostra una certa latente conflittualità e divisione del mondo arabo e islamico, poggia sull’insidiosa strumentalizzazione che ne fanno Stati Uniti e loro alleati, e a maggior ragione – ecco l’utile ruolo di una Turchia “neottomana” –  andrebbe sanata con   riconoscimenti reciproci nel quadro di un positivo dialogo fra regimi diversi ma solidali.

E’ difficile fare previsioni, tuttavia appare veramente anacronistico un riallineamento di Ankara sulle posizioni atlantiste e occidentali di qualche lustro fa : l’orientamento generale stesso della popolazione turca, non più disponibile a crociate contro i “cattivi vicini”, offre qualche elemento decisivo in tal senso.

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